A lui Simon Molitor (1766-1848) chitarrista e teorico dello strumento attribuisce un posto di primaria importanza. “Tra la quantità di composizioni per chitarra e voce ve ne sono alcune, poche in verità, dalle quali si può dedurre come i loro autori abbiamo cercato di aprire una nuova via che uscendo dal comune ed usuale modo di suonare, perseguisse un nuovo metodo e tra questi – scrisse Molitor- io credo di poter ricordare Matiegka e Diabelli”. Egli capì subito l’importanza delle più recenti conquiste del classicismo viennese, a lui va il merito di aver dimostrato per primo la possibilità di realizzare sulla chitarra la musica del proprio tempo, e grazie a questo, di aver imposto lo strumento all’attenzione del mondo musicale della sua città.
Matiegka era amato da Schubert, tanto che del suo trio, il Notturno op. 21 per chitarra, flauto e viola si appropria completamente, e ne fa un quartetto, solo aggiungendo una parte, molto virtuosistica, per violoncello. E la chitarra ha qui un ruolo centrale.
Nei primi anni dell’Ottocento a Vienna poco prima e dopo l’avvento di Mauro Giuliani che dominerà incontrastato fino al 1819, lo strumento sembrava costituire per i compositori una sorta di interessante rompicapo sul quale costruire la forma e l’armonia della nuova musica. Per conseguenza anche la presenza di questa nella musica da camera durante i primi trent’anni dell’Ottocento assume uno spessore di grande rilevanza: vi erano numerosi chitarristi che suonavano disinvoltamente diversi strumenti come Carulli, Giuliani, Sor. D’altra parte vi erano anche composizioni in grado di scrivere una parte per chitarra magari non solistica ma del tutto efficace nel contesto dell’opera d’assieme, tra questi se ne possono citare diversi: Weber, Pleyel, Süssmeyer, Kreutzer e lo stesso Franz Schubert.
Come conseguenza dunque nella combinazione tra il naturale impulso a scrivere musica cameristica ed il cospicuo successo della chitarra –che godeva del grande favore della comunità cittadina- a Vienna nasce una letteratura corposa e di indubbio valore. È indubbio che Schubert conoscesse bene lo strumento: forse lo attirava la sua duplice personalità la matrice popolare e dotta nel contempo; ad attestarlo, la pregevole fattura degli accompagnamenti di questi Sei Lieder per coro maschile e tuttavia soltanto nel terzetto “Ertöne, Leier zur Festesfeier” la parte della chitarra è autografa.
Per quanto riguarda gli altri brani, non ci è dato sapere se le trascrizioni siano state realizzate dallo stesso Schubert. È pensabile che egli le abbia però approvate dal momento che già dalla prima edizione prevedevano la chitarra. A Vienna, punto di confluenza di musicisti provenienti da tutta Europa, si diffondeva la moda il far musica in famiglia ed il piacere di organizzare quelle che già allora erano denominate ‘schubertiadi’, dove la passione del far musica era elemento unificatore che trasformava in intenditori ed appassionati sia i membri della aristocrazia, quelli della borghesia e persino i ‘semplici’ uomini della strada. Tra i riti della convivialità, i lieder, musiche fatte di melodie che accarezzano così bene la parola parlata, da farne uscire anche i più impercettibili sussurri fino al grido più lacerante. Nonostante fosse un genere preesistente, Schubert sembra inventarne uno nuovo: è come se all’interno della storia della musica, prima non fosse mai esistito. Qualsiasi occasione era propizia per scriverne uno e tante erano le composizioni ad uso domestico, come il Terzetto scritto per ricordare l’onomastico del padre Franz ed il proprio. Un esempio luminoso, accanto a una miriade di opere scritte nel segno del puro piacere d’essere ascoltate, capaci parimenti di fare riflettere e paradossalmente di provocare turbamenti per la profondità dei rimandi contenuti in ogni pagina anche la più minuta.
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